sabato 11 maggio 2013

Olivetti storia di una grande impresa italiana

 
Olivetti
 

Storia di un'impresa


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Le officine Olivetti a Ivrea: 1896-1958

Una storia di architetture industriali pensate per costruire fabbriche a misura d’uomo
La fabbrica in mattoni rossi
A Ivrea il primo nucleo degli stabilimenti Olivetti è familiarmente conosciuto dagli eporediesi come “la fabbrica in mattoni rossi”. Questo edificio, caratterizzato da strutture portanti in cemento armato e tamponamenti in mattoni, nel 1908 ospita la sede della società appena fondata da Camillo Olivetti. La costruzione, però, risale al 1896: era stata progettata dall’ingegner Camillo per ospitare una sua precedente attività industriale.
Agli inizi la piccola fabbrica è sufficiente per tutte le attività della Olivetti, ma con lo sviluppo dell’azienda nell’arco di trent’anni si rende necessaria la costruzione di altri edifici intorno a quello principale.
Questo primo complesso corrisponde, per impostazione planimetrica e strutturale, alla concezione e agli standard degli edifici industriali dell’epoca. Vi si svolgono tutte le attività di produzione che si estendono progressivamente dalle macchine per scrivere ad altri prodotti per ufficio, alle macchine utensili e alle relative attività accessorie.
Nascono, così, le Officine ICO, dall’acronimo del fondatore Ing. Camillo Olivetti, che nell’arco di circa sessant’anni, tra il 1896 e il 1958, con successivi ampliamenti si estendono lungo l’attuale via Jervis (allora via Castellamonte), fino alla completa saturazione dell’area disponibile.
Le officine, estese su un fronte lineare di quasi un chilometro, segnano il paesaggio urbano in modo talmente caratteristico da divenire un simbolo della stessa città Ivrea.

I primi tre ampliamenti della fabbrica
A partire dal 1934, sotto la direzione di Adriano Olivetti, lo sviluppo e la modernizzazione della produzione portano alla realizzazione di nuovi corpi della fabbrica con uno stile architettonico decisamente innovativo.
Gli ampliamenti vengono affidati ai giovanissimi Luigi Figini (1903-1984) e Gino Pollini (1903-1991), appartenenti a una nuova generazione di architetti italiani, aperti alle contemporanee esperienze delle avanguardie internazionali nel campo dell’architettura, della grafica, della pubblicità.
Il primo ampliamento (1934-36) segue le logiche della produzione in linea. L’edificio è un grande ambiente, caratterizzato da una struttura portante in cemento armato, che permette di formare grandi luci per lo spazio del lavoro, illuminato da ampie finestre a nastro; richiama, nell’impostazione compositiva e tecnica, i modelli di architetture per l’industria che stanno maturando negli Stati Uniti e nel resto d’Europa.
La costruzione di questo primo blocco è attenta alle esigenze tecniche della produzione, ma anche a quelle psicologiche del lavoro. Lo spazio interno viene pensato in accordo alle analisi e alle ricerche relative alle qualità psicotecniche e illuminotecniche degli ambienti di lavoro, condotte fin dagli anni Venti negli Stati Uniti e che, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, non sono estranee agli architetti italiani più attenti al dibattito sull’architettura industriale. Se ne trovano tracce in numerosi articoli pubblicati su “Casabella-Continuità”, che in quegli anni è tra le più importanti riviste di architettura internazionale.
Il secondo ampliamento (1937-39) prevede sostanzialmente la sopraelevazione della fabbrica e lo studio delle nuove addizioni nella parte retrostante l’edificio, mentre si mettono a punto delle proposte progettuali che poco dopo confluiranno nel terzo ampliamento, il più significativo per la caratterizzazione delle Officine (1939-40).
Nel 1939 ha inizio infatti la costruzione di un nuovo edificio lungo 130 metri, rivestito da una parete vetrata, atta a coprire interamente la facciata dell’edificio e che richiama, per la sua soluzione tecnologica, le architetture delle avanguardie internazionali degli anni Trenta, con un riferimento preciso all’opera dell’architetto di origine svizzera LeCorbusier e al dibattito promosso dai CIAM (Congrès Internationaux d’Architetture Moderne) sui luoghi della produzione e dell’abitare.
La parete vetrata progettata da Figini e Pollini rinuncia alla possibilità di applicazione della ventilazione forzata all’interno dell’intercapedine vetrata, così come proposta dall’architetto svizzero e utilizza invece il principio della camera d’aria, risultante dallo strato compreso tra le due superfici trasparenti, cosa che garantisce una certa resistenza al calore. Per evitare l’effetto del surriscaldamento causato dal vetro, Figini e Pollini introducono nello spazio intermedio delle antine opache in faesite, disposte in serie continua, ruotanti intorno a un asse verticale per “filtrare” l’ingresso dei raggi solari.
Le Officine Olivetti si collocano da quel momento tra gli esempi più rilevanti dell’architettura industriale in Europa, suscitando interessanti commenti e prese di posizione nel dibattito dell’architettura italiana ed europea.

Il quarto ampliamento: la Nuova ICO
Il blocco delle Officine ICO sull’asse di via Jervis si conclude negli anni ’50 con il quarto ampliamento e la costruzione della Nuova ICO (1956-1957). In questo nuovo stabilimento viene abbandonata l’impostazione adottata per i precedenti edifici che offrivano grandi ambienti indifferenziati rispetto alle diverse fasi della produzione. La nuova fabbrica ospita al suo interno due cicli di produzione che trovano due collocazioni distinte, non contemplate nel progetto originario, ma differenziate nel corso della costruzione: quella del montaggio delle macchine, e quella, sotto la pregevole copertura in lucernari della corte interna progettata da Eduardo Vittoria (conosciuta anche come Officina H), che riguarda la torneria, le presse e le lavorazioni meccaniche.
La Nuova ICO riprende nelle soluzioni formali la parete vetrata già utilizzata negli ampliamenti precedenti, a sottolineare anche una volontà simbolica nel caratterizzare l’immagine unitaria dell’intero complesso produttivo. Le doppie vetrate sono segnate lungo il perimetro della corte interna e su uno dei lati dell’edificio da fasce di fioriere orizzontali in cemento armato, che corrono lungo la facciata e interrompono la monotonia del curtain-wall. I corpi delle torri per gli impianti sulla facciata della corte interna sono rivestiti da piastrelle di maiolica gialla. Questi elementi compositivi sono assai significativi della sperimentazione formale condotta da Figini e Pollini e nel loro insieme propongono un nuovo, interessante esempio di architettura industriale, molto innovativo rispetto ai modelli allora in voga.

Dalla fabbrica al Museo a cielo aperto delle architetture olivettianeOggi le officine ICO sono in gran parte trasformate in ambienti di ufficio e ospitano svariate attività. In particolare la Nuova ICO e l’Officina H sono state oggetto tra 1997 e 2001 di importanti interventi di ristrutturazione: una parte ospita oggi le attività di una società di telefonia mobile, una parte è occupata dalla sede decentrata dell’Università degli Studi di Torino e una parte ancora viene utilizzata come grande spazio per mostre, concerti e altri spettacoli.
Le trasformazioni nella destinazione d’uso non hanno inciso però sull’architettura originale degli stabilimenti di via Jervis. Il blocco delle Officine ICO è di grande importanza non solo per la storia industriale, ma anche per la storia dell’architettura italiana: alcuni tra i più famosi architetti italiani qui si sono espressi con spirito fortemente creativo e innovativo, tanto che l’insieme degli edifici olivettiani è spesso indicato come il risultato più significativo della ricerca architettonica italiana del ‘900 in campo industriale.
Il riconoscimento di questo valore ha portato nel 2001 all’inaugurazione di un Museo a cielo aperto dell’architettura moderna, unico in Europa per complessità dei temi proposti e quantità delle architettura visitabili

 
 
 

Tutte le vergogne della sua Olivetti: "Libero" le ricorda a De Benedetti

L'editore di "Repubblica" si dice orgoglioso di quell'azienda, ma dimentica mazzette e salvagenti di Stato. Oltre al suo passato socialista...

 

di Franco Bechis
Il passo d’addio è accompagnato sempre da una certa retorica, e figurarsi se non doveva accadere anche per Carlo De Benedetti e il suo annuncio di mezzo ritiro dalla scena. Lui a dire il vero aveva già annunciato nel 2009 una pensione dorata, abbandonando tutte le cariche del gruppo salvo la presidenza dell’Espresso. Nella sostanza non cambia nulla rispetto ad allora, salvo l’utilizzo della legge sulla successione per trasferire ai figli le sue quote nella holding di famiglia, la Carlo De Benedetti & c. Un asse ereditario risolto in anticipo per non fare litigare la prole sul testamento, che gli assicura ancora il generoso stipendio da amministratore unico di Romed (2,5 milioni di euro l’anno) e la guida del gruppo editoriale che ha dentro Repubblica, i quotidiani locali di Finegil, le attività radiofoniche e televisive e il settimanale Espresso. Tanto è bastato per dedicare ieri sul quotidiano degli industriali italiani un’ampia intervista all’Ingegnere che annuncia «Ora farò l’editore puro».
EDITORE PURO
A parte l’atipicità di un editore puro che continua ad essere il capo di una famiglia con interessi nell’energia, nella finanza, nella ristorazione, nella componentistica auto, nella sanità e decine di altri settori, l’intervista al Sole 24 Ore ieri è stata l’occasione per ripercorrere fra effluvi di incenso la sua carriera di imprenditore. Come tanti altri grandi imprenditori (un difetto in comune col nemico di una vita, Silvio Berlusconi) De Benedetti gode di altissima autostima. E ha qualche difficoltà ad individuare errori compiuti in vita. Gli scappa un’ammissione sulla celebre scalata alla cassaforte del Belgio, la Sgb (che fallì ed è un fatto incontrovertibile), ma subito si corregge: «Il mio fu un errore di esecuzione, non di intuizione». Vale a dire: l’idea della scalata era stata sua, formidabile. La scalata in sé fu tentata dai suoi uomini, e furono loro a fallire: «Purtroppo nella sua finalizzazione l’operazione fu gestita male. E ne abbiamo subito le conseguenze». A una certa età la memoria ha maglie più larghe, vale per tutti. Così l’ingegnere non si ricorda più da quali labbra sfuggì l’arrogante annuncio ai belgi: «La ricreazione è finita», che fece irritare tutti e naufragare l’intera operazione. Erano proprio le sue labbra.
Ma i vuoti di memoria più terribili debbono avere accompagnato la non felicissima storia di De Benedetti nell’Olivetti. Non felicissima, perché grazie a quell’azienda fu indagato a Milano dal pool mani pulite, poi inseguito proprio diciannove anni fa durante il ponte dei Santi da un mandato di cattura. Infine pure arrestato (il processo fu lentissimo, e insieme ad altri fu infine prosciolto nel 2003 anche perché i fatti erano ormai prescritti). Al Sole 24 ore De Benedetti ha raccontato quel che si ricorda dell’Olivetti. Bei ricordi, come capita il giorno della pensione: «Una storia che rivendico con orgoglio. L’ho salvata da una morte che ha interessato tutti i nostri competitor di allora (…) Con Olivetti ho trasformato una fabbrica di macchine da scrivere in uno dei maggiori produttori di computer mondiali e poi in un grande operatore di telefonia mobile che rompeva un monopolio…». Poi se è finita male (ed è finita malissimo, con il marchio che ogni tanto risorge provoca altre disavventure e come la Fenice risorge ancora passando di mano in mano), naturalmente la responsabilità è altrui.
Basterebbe un po’ di memoria però per raccontare la storia giusta, forse poco adatta al passo d’addio, ma almeno vera. Quello di Olivetti in mano all’Ingegnere non fu straordinario successo imprenditoriale. Fu in realtà un calvario non diverso da quello affrontato dai competitori internazionali e anche dalle grandi imprese italiane in anni di crisi industriale come fu la prima metà degli anni Ottanta. Basta consultare gli archivi digitali per scoprire che il termine più volte associato ad Olivetti dal 1980 al 1994 fu «cassa integrazione», non certo un simbolo di grande successo. Non fu l’imprenditore, fu la politica a tenere in piedi quell’azienda. Sempre e comunque. Perché rappresentava un problema sociale, e perché De Benedetti chiedeva e pagava - come si faceva all’epoca - la politica per reggere la baracca. Lo ammise lui stesso - presentandosi naturalmente come vittima - davanti al pool Mani pulite che ormai lo aveva pizzicato quindici giorni dopo avere negato tutto di fronte all’assemblea degli azionisti Olivetti.
NEGAZIONE CONTINUA
«Non lavorare», scrisse in un suo memoriale, «in particolari specifici settori della pubblica amministrazione italiana diveniva per noi inaccettabile (…). Questa prima fase era caratterizzata da pressioni dei mandatari del Psi e della Dc alle quali rispondevamo respingendo richieste specifiche del “caso per caso”, ma cercando di limitarci a donazioni generiche ai segretari amministrativi non riferite specificatamente a singoli lavori». Poi «subentrò una seconda fase in cui avvenne una sistematica, totale, ineludibile contrattazione da parte dei mandatari dei partiti su tutto quello che potevano controllare senza alcuna eccezione. Così il nostro atteggiamento subì un cambiamento e cioè invertimmo la nostra posizione, respingendo ormai disgustati qualsiasi finanziamento ai partiti, ma subendo di volta in volta i ricatti di loro mandatari su singoli specifici espisodi». Insomma, finì con il pagamento di circa 10 miliardi di lire di tangenti. Concusso per tenere in piedi l’Olivetti.
Negli anni Ottanta l’azienda fu salvata dalla legge che impose i registratori di cassa a tutti i commercianti. Portava la firma di Bruno Visentini, già nel board Olivetti. E il mercato fu diviso da due aziende: l’Olivetti, e la Sweda. Che fu comprata subito dalla stessa Olivetti.
Nel memoriale De Benedetti sostenne di essere ricattato dalla politica che gli chiudeva la commessa delle Poste, aprendo il mercato ad aziende straniere. Pagò e rifornì l’azienda di vecchie telescriventi mai usate. Se ne trova ancora qualcuna nei magazzini di palazzo Chigi, dove costa una fortuna rottamarle. Sempre sotto ricatto dei politici, naturalmente. Anche se nell’archivio di Bettino Craxi e in quello di Giovanni Goria si trovano documenti che racconterebbero un’altra storia. A meno che il ricatto non comportasse cimeli garibaldini generosamente donati dall’Ingegnere a Bettino, o la partecipazione a comizi Psi sulla piazza di Brescia con tanto di garofano all’occhiello (foto dell’archivio Craxi).
Finite le commesse inutili, tornarono i cassa integrati. L’Olivetti provò a rifilarne 1500 alla pubblica amministrazione, con una norma varata dall’ultimo governo di Giulio Andreotti. Non passò in parlamento. Ma 414 cassaintegrati Olivetti furono scaricati lo stesso sulle spalle dello Stato. A quel punto l’ingegnere cercò di sfilare Finsiel all’Iri: un contratto per pagare la minoranza e comandare come fosse in maggioranza. Si oppose il socialista Massimo Pini, e l’operazione non riuscì.
LA PROPOSTA
Allora l’ingegnere bussò alla porta di Giovanni Goria (nella primavera del 1993), chiedendo una mano per la sua Olivetti pubblica amministrazione. Ci sono lunghi carteggi a testimoniarlo. Olivetti voleva una commessa per realizzare la carta elettronica della Sanità nella Regione Lazio, per poi estenderla in tutta Italia. E aveva proposto perfino una carta elettronica sostitutiva del certificato elettorale per fare votare tutti gli italiani. Goria caldeggiò (e anche qualcosa più) l’Olivetti presso l’amica Maria Pia Garavaglia, ministro della Sanità nel governo di Carlo Azeglio Ciampi. Il colpaccio però non andò in porto. E l’Olivetti sarebbe stata ancora mesi in agonia, fino alla spugna gettata dall’Ingegnere pochi anni dopo. Un’altra storia.