Enrico Mattei
L'UOMO CHE guardava al futuro: con questo titolo, stasera e domani, va in onda su Rai Uno la fiction su Enrico Mattei. Ma ai suoi tempi, per i sussiegosi e pragmatici funzionari della diplomazia britannica, più che guardare al futuro il capo dell'Eni era l'uomo che intralciava il loro presente. Anzi, seriamente e decisamente lo minacciava.
Fino al punto di...? Alt, no, questo non si può dire. Anche se il cospicuo dossier arrivato in Italia include carte a loro modo profetiche - tipo la fotocopia di un articolo del Financial Times che a due giorni dalla morte di Mattei si chiede se questi "dovrà andarsene" (Will signor Mattei have to go?) - i documenti recuperati da Mario J. Cereghino negli archivi britannici non autorizzano forzature, né automatismi cospirativi. Eppure, a meno di tre mesi dall'incidente aereo di Bascapé, 27 ottobre 1962, in un documento classificato come "segreto", dal ministero dell'Energia scrivono al Foreign Office: "L'Eni sta diventando una crescente minaccia agli interessi britannici. Ma non dal punto di vista commerciale [...] La minaccia dell'Eni si sviluppa, in molte parti del mondo, nell'infondere una sfiducia latente nei confronti delle compagnie petrolifere occidentali". Insomma, l'Eni incoraggia "l'autarchia" energetica a scapito dell'Inghilterra.
Una questione di principio. A settembre, al ministero degli Esteri del governo di Sua Maestà, fanno il punto "sui passi per contrastare il gruppo italiano". Ovviamente "è una materia da trattare con attenzione". Ci sono questioni da girare all'intelligence: "Fino a che punto l'Eni dipende dal petrolio russo? [...] È possibile distinguere tra le attività dell'Eni e gli interessi italiani? [...] Siamo in grado di affrontare il problema della virulenta propaganda di Mattei contro l'imperialismo e contro le compagnie petrolifere?". Non si conoscono le risposte. Eppure tante altre carte ricostruiscono in modo abbastanza impressionante lo scenario, il contesto, l'atmosfera che nell'autunno del 1962 si era venuta a creare attorno a quello che è diventato un eroe da tele-fiction.
Lo storico Nico Perrone, il massimo studioso di Mattei, ha esaminato questi documenti: "Contengono giudizi più sottili, più articolati e più intelligenti di quelli che si trovano negli archivi americani. A Washington reagivano grossolanamente e in ritardo; mentre gli inglesi avevano capito meglio e subito".
I funzionari britannici stanno addosso al presidente dell'Eni. Abbondano le schede, i rapporti, i memorandum. Si inventano pure il termine Matteism per indicare un modo di fare politica e affari. A loro modo lo ammirano anche. Questo si legge in un rapporto del Foreign Office alla legazione britannica di Washington: "Mattei punta in alto. A nostro parere è un manager tosto e un uomo potente nonché pericoloso".
È il 1957 quando l'ambasciatore a Roma, Ashley Clarke, nota: "A differenza di molti esponenti democristiani non sembra corrotto a livello personale. Vive in modo tutto sommato modesto. Il suo unico svago è la pesca: non ci pensa due volte a volare in Alaska per una battuta di pesca di una settimana [...] Si trova nelle condizioni di fare gran bene o gran male all'Italia".
È vanesio, certo, e dittatore. Mostra "tendenze napoleoniche" ed "estrema suscettibilità". Gli americani, fanno sapere a Londra i diplomatici di Sua Maestà, pensano che "soffra di megalomania". I difetti di un personaggio ragguardevole sono spesso la faccia in ombra delle sue virtù: "Come tutti gli uomini che si sono fatti da sé, Mattei è vanitoso e non tollera il benché minimo affronto, soprattutto se proviene da uno straniero. Nel lavoro è autocratico e spietato, ma al contempo molto ammirato e rispettato".
Dinamismo e dedizione al lavoro, gli riconosce anche un dirigente della Bp: "È l'apostolo delle imprese statali. Però molti ritengono che la sua psicologia si avvicini molto al concetto de "Lo Stato sono io"". Questo orgoglio può solleticare un certo spirito sportivo degli inglesi, ma certo non li rassicura negli affari. Mattei fa il diavolo a quattro, fa abbassare i prezzi del petrolio dall'Iran all'Etiopia, dal Marocco al Pakistan all'Arabia Saudita. Un po' bluffa, ma dal punto di vista degli inglesi un po' anche bara. O almeno: "Gioca con più mazzi di carte allo stesso tempo", si legge in un memorandum del ministero dell'Energia. Clarke insiste: "È un tipo che non si ferma dinanzi a niente".
Dai documenti si capisce che il "pericolo" è doppio. Riguarda da un lato le questioni dell'energia, ma dall'altro va a sbattere sulle alleanze e sulla stabilità di intere aree del mondo, a partire dal Medio Oriente, per giunta all'indomani della crisi di Suez. Il guaio supplementare è che dell'anticolonialismo questo italiano ha fatto una bandiera. Il petrolio è un mezzo per affermare una politica sociale e nazionale: "I successi in Egitto e in Persia gli hanno dato alla testa [...] Di fatto ha dato fuoco alle navi".
Le compagnie petrolifere cominciano a "preoccuparsi seriamente della loro posizione in Italia", avvisa l'addetto commerciale dell'ambasciata di Roma nel luglio del 1960. Ma già ad agosto Clarke prevede: "Non vi è dubbio che in futuro Mattei diventerà una notevole spina nel fianco delle nostre imprese, anche in altre aree del mondo". E colpiscono le conclusioni su questo personaggio "indubbiamente infido" che "in passato ha già utilizzato tattiche ricattatorie [...] E Mattei non solo non è crollato, ma al momento è più forte che mai".
Ha appena concluso accordi commerciali con l'Urss e si dispone a stringerne con la Cina comunista: "In futuro", scrivono all'ambasciata britannica di Pechino, "potrebbe fornire ai cinesi tutto il petrolio di cui hanno bisogno". Così da Londra cercano di capire se il governo italiano ispira o si limita a coprire le scorribande dell'Eni, o se è pronto a scaricare il leader del cane a sei zampe. Le carte offrono resoconti mortificanti sui politici italiani: distratti, ambigui, sfuggenti. Il ministro degli Esteri, il liberale Martino, fa spallucce; il presidente Segni è tutto preso dall'agricoltura.
Meno vaghi, anche se sorprendentemente ostili all'Eni, appaiono due diplomatici italiani. Un funzionario del Foreign Office contatta a Londra un diplonatico italiano, Prunas: "La sua impressione è che, se non affrontato in maniera appropriata, Mattei potrebbe diventare pericoloso: e nel dirmi ciò", specifica Mr Beeley, "mi ha chiesto di mantenere il massimo riserbo". Lo stesso riserbo che in tempi non sospetti il segretario generale della Farnesina, marchese Rossi-Longhi, chiede a Mr Hohler, incaricato d'affari dell'ambasciata: "Secondo Rossi-Longhi potremmo raggiungere migliori risultati assumendo un atteggiamento fermo e piuttosto duro con Mattei".
In realtà, dai documenti trovati da Cereghino viene fuori che il governo britannico, per tutto il 1961, spinge la Bp e la Shell, due delle sette sorelle, a trovare un accordo con l'Eni: "Fino a quando", scrive nell'agosto del 1961 Mr Laskey, un funzionario dell'ambasciata, "continueranno a considerare Mattei come una sorta di verruca o di escrescenza da ignorare (o che al momento non può essere asportata) è difficile che egli si comporti in maniera amichevole".
Niente di più difficile: e infatti Mattei insiste nel suo gioco - anche se forse non si rende conto che sta oltrepassando il terreno petrolifero per entrare di slancio nel campo scivoloso degli equilibri geopolitici. È di nuovo un italiano, il banchiere Lolli, Bnl, a mettere sull'avviso gli inglesi: "I sentimenti antiamericani di Mattei sono così forti che potrebbero trasformarsi in un pericolo sostanziale. In altre parole, potrebbe commettere qualche sciocchezza". Meglio quindi che le compagnie inglesi trovino un'intesa.
L'unico leader italiano che tiene testa a Mattei è Fanfani. Nell'autunno del 1961 l'allora presidente del Consiglio convoca a Palazzo Chigi Arnold Hofland, responsabile del settore Europa meridionale della Shell. Fanfani tenta una spericolata mediazione: "Personalmente il premier non vede di buon occhio l'intesa con Mosca e si è detto pronto ad annullarla. A patto però che Mattei sia messo in condizione di aggiudicarsi quei diritti estrattivi che permetterebbero all'Italia di disporre di una fonte di rifornimento autonoma".
Il colloquio dura due ore e mezzo, ma non produce risultati. Peggio: Hofland, petroliere disincantato, concorda con l'ambasciatore sul fatto che Mattei "risulta sempre più pericoloso, anche se", aggiunge, "personalità come Paul Getty sono in grado di creare grane ben peggiori". Clarke è più risoluto e pessimista: quelli che chiama "i ricatti di Mattei" sono "meno marginali di quanto sembrano". In questo cupo scenario, pur venato da un garbato understatement, si apre il 1962: l'ultimo della vita di Mattei.
Ora, anche in politica internazionale, i "pericoli" è meglio sventarli per tempo; e nessuno ama farsi "ricattare". C'è parecchio nervosismo all'ambasciata di Roma, al ministero dell'Energia, alla Bp, alla Shell. Il 7 agosto i funzionari del Foreign Office inseriscono in un già corposo dossier una strana, ma eloquente nota semi-anonima.
La spedisce, su carta intestata, un non meglio identificato Mr Searight: "Di recente una certa persona ha sostenuto una conversazione con una importante personalità dell'industria petrolifera che recentemente è entrata in contatto con Mattei. A suo dire, Mattei gli avrebbe confidato la seguente riflessione: "Ci ho messo sette anni per condurre il governo italiano verso una apertura a sinistra (in italiano nel testo, ndr). E posso dire che ce ne vorranno di meno per far uscire l'Italia dalla Nato e metterla alla testa dei Paesi neutrali"". I "Non Allineati", come si diceva in quegli anni. Aggiunge la noticina: "Non ci sono motivi per dubitare che tali affermazioni siano state effettivamente fatte". Possibile: il personaggio era quello che era. Gli eroi da tele-fiction guarderanno pure al futuro, ma intanto è ancora la lezione del passato che bisognerebbe capire meglio.
I documenti
I documenti del Foreign Office su Enrico Mattei su cui sono basate queste pagine sono stati trovati dal ricercatore Mario J. Cereghino negli Archivi nazionali britannici di Kew Gardens, a sud di Londra, e sono ora consultabili presso l'Archivio Casarrubea di Partinico, in provincia di Palermo (www.casarrubea.wordpress.com)
Fino al punto di...? Alt, no, questo non si può dire. Anche se il cospicuo dossier arrivato in Italia include carte a loro modo profetiche - tipo la fotocopia di un articolo del Financial Times che a due giorni dalla morte di Mattei si chiede se questi "dovrà andarsene" (Will signor Mattei have to go?) - i documenti recuperati da Mario J. Cereghino negli archivi britannici non autorizzano forzature, né automatismi cospirativi. Eppure, a meno di tre mesi dall'incidente aereo di Bascapé, 27 ottobre 1962, in un documento classificato come "segreto", dal ministero dell'Energia scrivono al Foreign Office: "L'Eni sta diventando una crescente minaccia agli interessi britannici. Ma non dal punto di vista commerciale [...] La minaccia dell'Eni si sviluppa, in molte parti del mondo, nell'infondere una sfiducia latente nei confronti delle compagnie petrolifere occidentali". Insomma, l'Eni incoraggia "l'autarchia" energetica a scapito dell'Inghilterra.
Una questione di principio. A settembre, al ministero degli Esteri del governo di Sua Maestà, fanno il punto "sui passi per contrastare il gruppo italiano". Ovviamente "è una materia da trattare con attenzione". Ci sono questioni da girare all'intelligence: "Fino a che punto l'Eni dipende dal petrolio russo? [...] È possibile distinguere tra le attività dell'Eni e gli interessi italiani? [...] Siamo in grado di affrontare il problema della virulenta propaganda di Mattei contro l'imperialismo e contro le compagnie petrolifere?". Non si conoscono le risposte. Eppure tante altre carte ricostruiscono in modo abbastanza impressionante lo scenario, il contesto, l'atmosfera che nell'autunno del 1962 si era venuta a creare attorno a quello che è diventato un eroe da tele-fiction.
Lo storico Nico Perrone, il massimo studioso di Mattei, ha esaminato questi documenti: "Contengono giudizi più sottili, più articolati e più intelligenti di quelli che si trovano negli archivi americani. A Washington reagivano grossolanamente e in ritardo; mentre gli inglesi avevano capito meglio e subito".
I funzionari britannici stanno addosso al presidente dell'Eni. Abbondano le schede, i rapporti, i memorandum. Si inventano pure il termine Matteism per indicare un modo di fare politica e affari. A loro modo lo ammirano anche. Questo si legge in un rapporto del Foreign Office alla legazione britannica di Washington: "Mattei punta in alto. A nostro parere è un manager tosto e un uomo potente nonché pericoloso".
È il 1957 quando l'ambasciatore a Roma, Ashley Clarke, nota: "A differenza di molti esponenti democristiani non sembra corrotto a livello personale. Vive in modo tutto sommato modesto. Il suo unico svago è la pesca: non ci pensa due volte a volare in Alaska per una battuta di pesca di una settimana [...] Si trova nelle condizioni di fare gran bene o gran male all'Italia".
È vanesio, certo, e dittatore. Mostra "tendenze napoleoniche" ed "estrema suscettibilità". Gli americani, fanno sapere a Londra i diplomatici di Sua Maestà, pensano che "soffra di megalomania". I difetti di un personaggio ragguardevole sono spesso la faccia in ombra delle sue virtù: "Come tutti gli uomini che si sono fatti da sé, Mattei è vanitoso e non tollera il benché minimo affronto, soprattutto se proviene da uno straniero. Nel lavoro è autocratico e spietato, ma al contempo molto ammirato e rispettato".
Dinamismo e dedizione al lavoro, gli riconosce anche un dirigente della Bp: "È l'apostolo delle imprese statali. Però molti ritengono che la sua psicologia si avvicini molto al concetto de "Lo Stato sono io"". Questo orgoglio può solleticare un certo spirito sportivo degli inglesi, ma certo non li rassicura negli affari. Mattei fa il diavolo a quattro, fa abbassare i prezzi del petrolio dall'Iran all'Etiopia, dal Marocco al Pakistan all'Arabia Saudita. Un po' bluffa, ma dal punto di vista degli inglesi un po' anche bara. O almeno: "Gioca con più mazzi di carte allo stesso tempo", si legge in un memorandum del ministero dell'Energia. Clarke insiste: "È un tipo che non si ferma dinanzi a niente".
Dai documenti si capisce che il "pericolo" è doppio. Riguarda da un lato le questioni dell'energia, ma dall'altro va a sbattere sulle alleanze e sulla stabilità di intere aree del mondo, a partire dal Medio Oriente, per giunta all'indomani della crisi di Suez. Il guaio supplementare è che dell'anticolonialismo questo italiano ha fatto una bandiera. Il petrolio è un mezzo per affermare una politica sociale e nazionale: "I successi in Egitto e in Persia gli hanno dato alla testa [...] Di fatto ha dato fuoco alle navi".
Le compagnie petrolifere cominciano a "preoccuparsi seriamente della loro posizione in Italia", avvisa l'addetto commerciale dell'ambasciata di Roma nel luglio del 1960. Ma già ad agosto Clarke prevede: "Non vi è dubbio che in futuro Mattei diventerà una notevole spina nel fianco delle nostre imprese, anche in altre aree del mondo". E colpiscono le conclusioni su questo personaggio "indubbiamente infido" che "in passato ha già utilizzato tattiche ricattatorie [...] E Mattei non solo non è crollato, ma al momento è più forte che mai".
Ha appena concluso accordi commerciali con l'Urss e si dispone a stringerne con la Cina comunista: "In futuro", scrivono all'ambasciata britannica di Pechino, "potrebbe fornire ai cinesi tutto il petrolio di cui hanno bisogno". Così da Londra cercano di capire se il governo italiano ispira o si limita a coprire le scorribande dell'Eni, o se è pronto a scaricare il leader del cane a sei zampe. Le carte offrono resoconti mortificanti sui politici italiani: distratti, ambigui, sfuggenti. Il ministro degli Esteri, il liberale Martino, fa spallucce; il presidente Segni è tutto preso dall'agricoltura.
Meno vaghi, anche se sorprendentemente ostili all'Eni, appaiono due diplomatici italiani. Un funzionario del Foreign Office contatta a Londra un diplonatico italiano, Prunas: "La sua impressione è che, se non affrontato in maniera appropriata, Mattei potrebbe diventare pericoloso: e nel dirmi ciò", specifica Mr Beeley, "mi ha chiesto di mantenere il massimo riserbo". Lo stesso riserbo che in tempi non sospetti il segretario generale della Farnesina, marchese Rossi-Longhi, chiede a Mr Hohler, incaricato d'affari dell'ambasciata: "Secondo Rossi-Longhi potremmo raggiungere migliori risultati assumendo un atteggiamento fermo e piuttosto duro con Mattei".
In realtà, dai documenti trovati da Cereghino viene fuori che il governo britannico, per tutto il 1961, spinge la Bp e la Shell, due delle sette sorelle, a trovare un accordo con l'Eni: "Fino a quando", scrive nell'agosto del 1961 Mr Laskey, un funzionario dell'ambasciata, "continueranno a considerare Mattei come una sorta di verruca o di escrescenza da ignorare (o che al momento non può essere asportata) è difficile che egli si comporti in maniera amichevole".
Niente di più difficile: e infatti Mattei insiste nel suo gioco - anche se forse non si rende conto che sta oltrepassando il terreno petrolifero per entrare di slancio nel campo scivoloso degli equilibri geopolitici. È di nuovo un italiano, il banchiere Lolli, Bnl, a mettere sull'avviso gli inglesi: "I sentimenti antiamericani di Mattei sono così forti che potrebbero trasformarsi in un pericolo sostanziale. In altre parole, potrebbe commettere qualche sciocchezza". Meglio quindi che le compagnie inglesi trovino un'intesa.
L'unico leader italiano che tiene testa a Mattei è Fanfani. Nell'autunno del 1961 l'allora presidente del Consiglio convoca a Palazzo Chigi Arnold Hofland, responsabile del settore Europa meridionale della Shell. Fanfani tenta una spericolata mediazione: "Personalmente il premier non vede di buon occhio l'intesa con Mosca e si è detto pronto ad annullarla. A patto però che Mattei sia messo in condizione di aggiudicarsi quei diritti estrattivi che permetterebbero all'Italia di disporre di una fonte di rifornimento autonoma".
Il colloquio dura due ore e mezzo, ma non produce risultati. Peggio: Hofland, petroliere disincantato, concorda con l'ambasciatore sul fatto che Mattei "risulta sempre più pericoloso, anche se", aggiunge, "personalità come Paul Getty sono in grado di creare grane ben peggiori". Clarke è più risoluto e pessimista: quelli che chiama "i ricatti di Mattei" sono "meno marginali di quanto sembrano". In questo cupo scenario, pur venato da un garbato understatement, si apre il 1962: l'ultimo della vita di Mattei.
Ora, anche in politica internazionale, i "pericoli" è meglio sventarli per tempo; e nessuno ama farsi "ricattare". C'è parecchio nervosismo all'ambasciata di Roma, al ministero dell'Energia, alla Bp, alla Shell. Il 7 agosto i funzionari del Foreign Office inseriscono in un già corposo dossier una strana, ma eloquente nota semi-anonima.
La spedisce, su carta intestata, un non meglio identificato Mr Searight: "Di recente una certa persona ha sostenuto una conversazione con una importante personalità dell'industria petrolifera che recentemente è entrata in contatto con Mattei. A suo dire, Mattei gli avrebbe confidato la seguente riflessione: "Ci ho messo sette anni per condurre il governo italiano verso una apertura a sinistra (in italiano nel testo, ndr). E posso dire che ce ne vorranno di meno per far uscire l'Italia dalla Nato e metterla alla testa dei Paesi neutrali"". I "Non Allineati", come si diceva in quegli anni. Aggiunge la noticina: "Non ci sono motivi per dubitare che tali affermazioni siano state effettivamente fatte". Possibile: il personaggio era quello che era. Gli eroi da tele-fiction guarderanno pure al futuro, ma intanto è ancora la lezione del passato che bisognerebbe capire meglio.
I documenti
I documenti del Foreign Office su Enrico Mattei su cui sono basate queste pagine sono stati trovati dal ricercatore Mario J. Cereghino negli Archivi nazionali britannici di Kew Gardens, a sud di Londra, e sono ora consultabili presso l'Archivio Casarrubea di Partinico, in provincia di Palermo (www.casarrubea.wordpress.com)
Chi era Enrico Mattei
Morì 50 anni fa in un misterioso incidente aereo: fu il fondatore dell'ENI e il simbolo di quella generazione di manager pubblici che negli anni '50 cambiò l'Italia
Il 27 ottobre del 1962 morì in un misterioso incidente aereo a Bascapé, in provincia di Pavia, Enrico Mattei, fondatore e presidente dell’ENI. Le cause dello schianto non furono mai chiarite e in molti ipotizzano ancora oggi che a bordo ci fosse una bomba. Secondo la teoria del complotto, i mandanti dell’attentato furono le Sette Sorelle, le sette grandi società petrolifere anglo-americane dell’epoca. L’ipotesi del complotto internazionale deriva dalla storia e dall’attività di Mattei, che trasformò un vecchio ente fascista nella moderna ENI e la portò a competere in Italia e sui mercati internazionali.
La carriera
Enrico Mattei nacque ad Acqualagna, in quella che è ora la provincia di Pesaro-Urbino. Figlio di un maresciallo dei carabinieri in pensione, a vent’anni, non ancora laureato, era già diventato direttore della conceria Fiore di Matelica. A 28 anni, nel 1934, fondò la sua prima impresa, una piccola azienda chimica che all’inizio aveva solo due operai. Mattei fu iscritto al partito fascista, ma non fu mai molto attivo. Nella sua Storia d’Italia Montanelli smentisce alcune delle insinuazioni che erano state fatte negli anni ’50 sul Mattei fascista, ma scriveva anche che «l’ambizione di questo self-made man lo portava senza scampo ad alcune compromissioni con il regime al potere».
Quello che è certo è che dopo il 1943 Mattei fu un partigiano e scalò molto in fretta le gerarchie della Resistenza. Divenne in poco tempo uno dei capitani generali delle formazioni partigiane vicine alla Democrazia Cristiana e il rappresentante della DC presso il CLN-AI (Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, il coordinamento dei partigiani che poi divenne una sorta di governo provvisorio dell’Italia del nord appena liberata). Per il suo servizio partigiano gli venne conferita dal generale Mark Clark la Bronze Star, quarta decorazione in ordine di importanza dell’esercito americano.
Quasi tutti i dirigenti della Resistenza, finita la guerra, furono ricompensati dai loro partiti con un posto in parlamento, in un’amministrazione locale o in un ente pubblico. In questa assegnazione Mattei non fu molto fortunato: venne nominato commissario dell’Agenzia generale italiana petroli (AGIP), un vecchio carrozzone di epoca fascista che possedeva una manciata di concessioni per esplorazioni petrolifere che non avevano fruttato niente sia in Italia che all’estero. Persino durante il fascismo era ritenuto un ente inutile, tanto da aver ricevuto il soprannome “Agenzia gerarchi in pensione”.
L’ordine che il commissario Mattei aveva ricevuto era quella di liquidare l’AGIP, cioè venderne le strutture e le concessioni al miglior offerente liberando lo stato da un peso inutile. Mattei non lo fece: a quanto pare alcune esplorazioni sismiche compiute durante la guerra avevano lasciato il sospetto che in alcune zone della Lombardia potessero esserci giacimenti di gas o petrolio. Era abbastanza per solleticare la fantasia di Mattei che dal 1945 al 1948 non fece altro che battersi per cercare di tenere in vita l’AGIP.
Ebbe successo: nel 1948 finì l’epoca del commissariamento e Mattei venne nominato vice-presidente dell’AGIP. Scrisse Montanelli, sempre nella Storia d’Italia, che uno dei segreti di Mattei nel convincere le persone era che prima di tutti sembrava estremamente convinto lui stesso: «Uno degli autori di questo libro, che a Mattei parlò un paio di volte, in ambedue le occasioni si sentì a disagio per il fatto di non riuscire a condividere certe sue opinioni. Ne provò una specie di rimorso». Ma oltre alle sue capacità, Mattei aveva anche delle ottime alleanze all’interno della DC.
Le esplorazioni intanto rivelarono che nel sottosuolo del lodigiano non c’era petrolio (se non pochissimo, a Cortemaggiore in provincia di Piacenza), ma c’era il metano e sembrava che ce ne fosse moltissimo. Per Mattei e per l’AGIP fu un successo: non solo avevano trovato una fonte energetica a basso costo, ma ora quelle fonti energetiche si trovavano nelle mani “sicure” di un ente pubblico italiano e non un privato inglese o americano. Grazie a questi successi, Mattei riuscì a far istituire l’Ente Nazionale Idrocarburi, di cui l’AGIP sarà una delle colonne portanti. Era il 1953 e nasceva l’ENI.
La carrieraEnrico Mattei nacque ad Acqualagna, in quella che è ora la provincia di Pesaro-Urbino. Figlio di un maresciallo dei carabinieri in pensione, a vent’anni, non ancora laureato, era già diventato direttore della conceria Fiore di Matelica. A 28 anni, nel 1934, fondò la sua prima impresa, una piccola azienda chimica che all’inizio aveva solo due operai. Mattei fu iscritto al partito fascista, ma non fu mai molto attivo. Nella sua Storia d’Italia Montanelli smentisce alcune delle insinuazioni che erano state fatte negli anni ’50 sul Mattei fascista, ma scriveva anche che «l’ambizione di questo self-made man lo portava senza scampo ad alcune compromissioni con il regime al potere».
Quello che è certo è che dopo il 1943 Mattei fu un partigiano e scalò molto in fretta le gerarchie della Resistenza. Divenne in poco tempo uno dei capitani generali delle formazioni partigiane vicine alla Democrazia Cristiana e il rappresentante della DC presso il CLN-AI (Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, il coordinamento dei partigiani che poi divenne una sorta di governo provvisorio dell’Italia del nord appena liberata). Per il suo servizio partigiano gli venne conferita dal generale Mark Clark la Bronze Star, quarta decorazione in ordine di importanza dell’esercito americano.
Quasi tutti i dirigenti della Resistenza, finita la guerra, furono ricompensati dai loro partiti con un posto in parlamento, in un’amministrazione locale o in un ente pubblico. In questa assegnazione Mattei non fu molto fortunato: venne nominato commissario dell’Agenzia generale italiana petroli (AGIP), un vecchio carrozzone di epoca fascista che possedeva una manciata di concessioni per esplorazioni petrolifere che non avevano fruttato niente sia in Italia che all’estero. Persino durante il fascismo era ritenuto un ente inutile, tanto da aver ricevuto il soprannome “Agenzia gerarchi in pensione”.
L’ordine che il commissario Mattei aveva ricevuto era quella di liquidare l’AGIP, cioè venderne le strutture e le concessioni al miglior offerente liberando lo stato da un peso inutile. Mattei non lo fece: a quanto pare alcune esplorazioni sismiche compiute durante la guerra avevano lasciato il sospetto che in alcune zone della Lombardia potessero esserci giacimenti di gas o petrolio. Era abbastanza per solleticare la fantasia di Mattei che dal 1945 al 1948 non fece altro che battersi per cercare di tenere in vita l’AGIP.
Ebbe successo: nel 1948 finì l’epoca del commissariamento e Mattei venne nominato vice-presidente dell’AGIP. Scrisse Montanelli, sempre nella Storia d’Italia, che uno dei segreti di Mattei nel convincere le persone era che prima di tutti sembrava estremamente convinto lui stesso: «Uno degli autori di questo libro, che a Mattei parlò un paio di volte, in ambedue le occasioni si sentì a disagio per il fatto di non riuscire a condividere certe sue opinioni. Ne provò una specie di rimorso». Ma oltre alle sue capacità, Mattei aveva anche delle ottime alleanze all’interno della DC.
Le esplorazioni intanto rivelarono che nel sottosuolo del lodigiano non c’era petrolio (se non pochissimo, a Cortemaggiore in provincia di Piacenza), ma c’era il metano e sembrava che ce ne fosse moltissimo. Per Mattei e per l’AGIP fu un successo: non solo avevano trovato una fonte energetica a basso costo, ma ora quelle fonti energetiche si trovavano nelle mani “sicure” di un ente pubblico italiano e non un privato inglese o americano. Grazie a questi successi, Mattei riuscì a far istituire l’Ente Nazionale Idrocarburi, di cui l’AGIP sarà una delle colonne portanti. Era il 1953 e nasceva l’ENI.
L’Italia di quegli anni
Non si può capire chi era Mattei e cosa fece se non si tiene presente che cos’era l’Italia in quegli anni. Quando venne creata l’ENI circa il 50% dei lavoratori italiani – poco meno di 10 milioni di persone – era impiegato nell’agricoltura. Non c’erano infrastrutture e le poche che erano state costruite prima della guerra erano state distrutte o bombardate.
Enrico Mattei faceva parte di una particolare generazione di manager pubblici (cioè alla testa di imprese di proprietà dello stato) che tra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni ’60 dettero con le loro imprese un contributo fondamentale a cambiare questa situazione e a rendere l’Italia un paese moderno e industrializzato. Mattei fu il simbolo di questa generazione (Oscar Sinigaglia fu una figura simile nel campo della siderurgia) dalle caratteristiche molto particolari.
Il problema delle industrie pubbliche è che il loro proprietario, cioè il controllore che deve assicurarsi che i manager facciano i suoi interessi, è l’intera popolazione, che esercita il suo controllo tramite la mediazione della politica. Questo controllo non è molto efficace e le imprese pubbliche vengono spesso utilizzate per fare gli interessi più della politica che della popolazione.
In un certo senso fu un caso, dovuto alla guerra, all’impulso morale della Resistenza e alla voglia di ricostruire, a far sì che i manager come Mattei non solo fecero il loro lavoro, ma lo fecero bene. Quando la generazione di Mattei scomparve, i partiti e la politica scelsero per sostituirli manager di calibro ben diverso, l’industria pubblica perse competitività ed efficienza, creando tutte quelle storture (le famose cattedrali nel deserto) di cui è piena la storia degli anni ’60 e ’70.
L’ENI
Mattei dimostrò quanto fosse facile per un manager di un’impresa pubblica liberarsi anche del tenue controllo a cui lo sottoponevano i politici. Come diceva lui stesso: «Uso i partiti politici come un taxi», nel senso che usava un partito per uno scopo, pagava la “corsa” e poi ne sceglieva un altro. Il denaro con cui poteva permettersi tutti questi passaggi derivava dalle rendite di cui l’ENI godeva grazie al monopolio sul metano e sul petrolio della pianura padana. Rendite con le quali aveva costruito enormi fondi neri.
Comprata l’acquiescenza dei politici, Mattei procedeva a modernizzare l’Italia rapidamente e con poca democrazia. Ci sono parecchi racconti di piccoli paesi che si svegliarono una mattina trovando i campi sventrati dagli operai ENI che avevano scavato i canali dove impiantare i metanodotti. All’epoca non c’era nemmeno il tempo di organizzare un comitato civico per fermare i lavori. Mattei collegò tutta l’Italia con i suoi gasdotti, distribuì quasi ovunque i benzinai AGIP e impiantò i primi grandi poli petrolchimici, come quello di Ravenna.
Sotto Mattei, l’ENI operò anche all’estero, dove entrò in competizione con le grandi multinazionali del petrolio anglo-americane che allora dominavano il mercato. Mattei strinse rapporti con il Marocco, la Libia, la Giordania e l’Algeria, che si stava rendendo indipendente dalla Francia. Oltre agli oleodotti e alle concessioni per l’esplorazione petrolifera, Mattei fece anche altro.
Si imbarcò in alcuni progetti che con l’attività dell’ENI non avevano niente a che fare. Come ad esempio un timido tentativo di organizzare un matrimonio tra lo Scià di Persia e Maria Gabriella di Savoia. Si inserì attivamente nella lotta d’indipendenza algerina, dichiarando che non avrebbe acquistato concessioni petrolifere nel paese se non avesse raggiunto l’indipendenza, ricevendo così una minaccia di morte da parte dell’OAS, un’organizzazione terroristica favorevole al dominio francese sull’Algeria. Sempre in quegli anni si fece convincere da alcuni politici, come il sindaco DC di Firenze Giorgio la Pira, ad operare alcuni salvataggi di imprese in difficoltà, entrando così nel settore chimico e in quello meccanico.
Uno di questi progetti fu anche la fondazione del quotidiano Il Giorno, creato con i soldi dell’ENI e per supportarne le battaglie politiche. Il Giorno era un’impresa che non c’entrava nulla con il core business dell’ENI, distolse energie e denaro dalla missione principale della società, ma fu anche uno dei giornali più moderni del paese e contribuì a cambiare il mondo della stampa italiana.
L’incidente
Nei primi anni ’60 i conti dell’ENI peggiorarono a causa dei salvataggi che la società aveva compiuto e di alcuni investimenti sbagliati. Nel 1962, ad esempio, l’indebitamento della società aumentò e non vennero prodotti utili, cioè guadagni. Il 27 ottobre del 1962 alle 16,57, Mattei decollò da Catania per tornare a Milano su un bimotore Morane Saulnier, della flotta dell’ENI. A bordo, oltre al pilota, c’era anche un giornalista americano.
Alle 18,57, mentre si trovavano sopra Bascapé, in fase di discesa verso l’aeroporto di Linate, dall’aereo arrivò l’ultima comunicazione: «Raggiunto duemila piedi», poi più nulla. La prima inchiesta ordinata dal ministro della difesa Giulio Andreotti imputò l’incidente a un errore del pilota: con una virata avrebbe perso il controllo dell’aereo facendolo precipitare.
La spiegazione non soddisfece il fratello di Mattei, che fece denuncia contro ignoti. Anche un’inchiesta della magistratura stabilì che l’aereo si era schiantato a terra quando ancora era integro, quindi non poteva essere esploso in volo. Allo stesso risultato è arrivata un’altra inchiesta, conclusa nel 1997.
Le ipotesi che l’incidente sia stato causato da un sabotaggio o da un attentato sono diffuse ancora oggi. I motivi sono numerosi, anche se restano indizi più che prove. Ad esempio dall’aereo non partirono richieste d’aiuto: il pilota di un aereo che precipita dovrebbe avere tutto il tempo di chiamare aiuto. Mattei, inoltre, era un uomo che si era fatto molti nemici. L’OAS franco-algerino, prima di tutti, che lo aveva minacciato di morte nel 1961. Oppure le grandi aziende petrolifere, infastidite dalla sua concorrenza. Alcuni hanno ipotizzato addirittura la CIA e i servizi segreti israeliani dietro la morte di Mattei. Le prove raccolte in questi cinquant’anni, però, lasciano intendere che si sia trattato solo di uno sfortunato incidente.
La carriera
Enrico Mattei nacque ad Acqualagna, in quella che è ora la provincia di Pesaro-Urbino. Figlio di un maresciallo dei carabinieri in pensione, a vent’anni, non ancora laureato, era già diventato direttore della conceria Fiore di Matelica. A 28 anni, nel 1934, fondò la sua prima impresa, una piccola azienda chimica che all’inizio aveva solo due operai. Mattei fu iscritto al partito fascista, ma non fu mai molto attivo. Nella sua Storia d’Italia Montanelli smentisce alcune delle insinuazioni che erano state fatte negli anni ’50 sul Mattei fascista, ma scriveva anche che «l’ambizione di questo self-made man lo portava senza scampo ad alcune compromissioni con il regime al potere».
Quello che è certo è che dopo il 1943 Mattei fu un partigiano e scalò molto in fretta le gerarchie della Resistenza. Divenne in poco tempo uno dei capitani generali delle formazioni partigiane vicine alla Democrazia Cristiana e il rappresentante della DC presso il CLN-AI (Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, il coordinamento dei partigiani che poi divenne una sorta di governo provvisorio dell’Italia del nord appena liberata). Per il suo servizio partigiano gli venne conferita dal generale Mark Clark la Bronze Star, quarta decorazione in ordine di importanza dell’esercito americano.
Quasi tutti i dirigenti della Resistenza, finita la guerra, furono ricompensati dai loro partiti con un posto in parlamento, in un’amministrazione locale o in un ente pubblico. In questa assegnazione Mattei non fu molto fortunato: venne nominato commissario dell’Agenzia generale italiana petroli (AGIP), un vecchio carrozzone di epoca fascista che possedeva una manciata di concessioni per esplorazioni petrolifere che non avevano fruttato niente sia in Italia che all’estero. Persino durante il fascismo era ritenuto un ente inutile, tanto da aver ricevuto il soprannome “Agenzia gerarchi in pensione”.
L’ordine che il commissario Mattei aveva ricevuto era quella di liquidare l’AGIP, cioè venderne le strutture e le concessioni al miglior offerente liberando lo stato da un peso inutile. Mattei non lo fece: a quanto pare alcune esplorazioni sismiche compiute durante la guerra avevano lasciato il sospetto che in alcune zone della Lombardia potessero esserci giacimenti di gas o petrolio. Era abbastanza per solleticare la fantasia di Mattei che dal 1945 al 1948 non fece altro che battersi per cercare di tenere in vita l’AGIP.
Ebbe successo: nel 1948 finì l’epoca del commissariamento e Mattei venne nominato vice-presidente dell’AGIP. Scrisse Montanelli, sempre nella Storia d’Italia, che uno dei segreti di Mattei nel convincere le persone era che prima di tutti sembrava estremamente convinto lui stesso: «Uno degli autori di questo libro, che a Mattei parlò un paio di volte, in ambedue le occasioni si sentì a disagio per il fatto di non riuscire a condividere certe sue opinioni. Ne provò una specie di rimorso». Ma oltre alle sue capacità, Mattei aveva anche delle ottime alleanze all’interno della DC.
Le esplorazioni intanto rivelarono che nel sottosuolo del lodigiano non c’era petrolio (se non pochissimo, a Cortemaggiore in provincia di Piacenza), ma c’era il metano e sembrava che ce ne fosse moltissimo. Per Mattei e per l’AGIP fu un successo: non solo avevano trovato una fonte energetica a basso costo, ma ora quelle fonti energetiche si trovavano nelle mani “sicure” di un ente pubblico italiano e non un privato inglese o americano. Grazie a questi successi, Mattei riuscì a far istituire l’Ente Nazionale Idrocarburi, di cui l’AGIP sarà una delle colonne portanti. Era il 1953 e nasceva l’ENI.
La carrieraEnrico Mattei nacque ad Acqualagna, in quella che è ora la provincia di Pesaro-Urbino. Figlio di un maresciallo dei carabinieri in pensione, a vent’anni, non ancora laureato, era già diventato direttore della conceria Fiore di Matelica. A 28 anni, nel 1934, fondò la sua prima impresa, una piccola azienda chimica che all’inizio aveva solo due operai. Mattei fu iscritto al partito fascista, ma non fu mai molto attivo. Nella sua Storia d’Italia Montanelli smentisce alcune delle insinuazioni che erano state fatte negli anni ’50 sul Mattei fascista, ma scriveva anche che «l’ambizione di questo self-made man lo portava senza scampo ad alcune compromissioni con il regime al potere».
Quello che è certo è che dopo il 1943 Mattei fu un partigiano e scalò molto in fretta le gerarchie della Resistenza. Divenne in poco tempo uno dei capitani generali delle formazioni partigiane vicine alla Democrazia Cristiana e il rappresentante della DC presso il CLN-AI (Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, il coordinamento dei partigiani che poi divenne una sorta di governo provvisorio dell’Italia del nord appena liberata). Per il suo servizio partigiano gli venne conferita dal generale Mark Clark la Bronze Star, quarta decorazione in ordine di importanza dell’esercito americano.
Quasi tutti i dirigenti della Resistenza, finita la guerra, furono ricompensati dai loro partiti con un posto in parlamento, in un’amministrazione locale o in un ente pubblico. In questa assegnazione Mattei non fu molto fortunato: venne nominato commissario dell’Agenzia generale italiana petroli (AGIP), un vecchio carrozzone di epoca fascista che possedeva una manciata di concessioni per esplorazioni petrolifere che non avevano fruttato niente sia in Italia che all’estero. Persino durante il fascismo era ritenuto un ente inutile, tanto da aver ricevuto il soprannome “Agenzia gerarchi in pensione”.
L’ordine che il commissario Mattei aveva ricevuto era quella di liquidare l’AGIP, cioè venderne le strutture e le concessioni al miglior offerente liberando lo stato da un peso inutile. Mattei non lo fece: a quanto pare alcune esplorazioni sismiche compiute durante la guerra avevano lasciato il sospetto che in alcune zone della Lombardia potessero esserci giacimenti di gas o petrolio. Era abbastanza per solleticare la fantasia di Mattei che dal 1945 al 1948 non fece altro che battersi per cercare di tenere in vita l’AGIP.
Ebbe successo: nel 1948 finì l’epoca del commissariamento e Mattei venne nominato vice-presidente dell’AGIP. Scrisse Montanelli, sempre nella Storia d’Italia, che uno dei segreti di Mattei nel convincere le persone era che prima di tutti sembrava estremamente convinto lui stesso: «Uno degli autori di questo libro, che a Mattei parlò un paio di volte, in ambedue le occasioni si sentì a disagio per il fatto di non riuscire a condividere certe sue opinioni. Ne provò una specie di rimorso». Ma oltre alle sue capacità, Mattei aveva anche delle ottime alleanze all’interno della DC.
Le esplorazioni intanto rivelarono che nel sottosuolo del lodigiano non c’era petrolio (se non pochissimo, a Cortemaggiore in provincia di Piacenza), ma c’era il metano e sembrava che ce ne fosse moltissimo. Per Mattei e per l’AGIP fu un successo: non solo avevano trovato una fonte energetica a basso costo, ma ora quelle fonti energetiche si trovavano nelle mani “sicure” di un ente pubblico italiano e non un privato inglese o americano. Grazie a questi successi, Mattei riuscì a far istituire l’Ente Nazionale Idrocarburi, di cui l’AGIP sarà una delle colonne portanti. Era il 1953 e nasceva l’ENI.
L’Italia di quegli anni
Non si può capire chi era Mattei e cosa fece se non si tiene presente che cos’era l’Italia in quegli anni. Quando venne creata l’ENI circa il 50% dei lavoratori italiani – poco meno di 10 milioni di persone – era impiegato nell’agricoltura. Non c’erano infrastrutture e le poche che erano state costruite prima della guerra erano state distrutte o bombardate.
Enrico Mattei faceva parte di una particolare generazione di manager pubblici (cioè alla testa di imprese di proprietà dello stato) che tra la fine della seconda guerra mondiale e i primi anni ’60 dettero con le loro imprese un contributo fondamentale a cambiare questa situazione e a rendere l’Italia un paese moderno e industrializzato. Mattei fu il simbolo di questa generazione (Oscar Sinigaglia fu una figura simile nel campo della siderurgia) dalle caratteristiche molto particolari.
Il problema delle industrie pubbliche è che il loro proprietario, cioè il controllore che deve assicurarsi che i manager facciano i suoi interessi, è l’intera popolazione, che esercita il suo controllo tramite la mediazione della politica. Questo controllo non è molto efficace e le imprese pubbliche vengono spesso utilizzate per fare gli interessi più della politica che della popolazione.
In un certo senso fu un caso, dovuto alla guerra, all’impulso morale della Resistenza e alla voglia di ricostruire, a far sì che i manager come Mattei non solo fecero il loro lavoro, ma lo fecero bene. Quando la generazione di Mattei scomparve, i partiti e la politica scelsero per sostituirli manager di calibro ben diverso, l’industria pubblica perse competitività ed efficienza, creando tutte quelle storture (le famose cattedrali nel deserto) di cui è piena la storia degli anni ’60 e ’70.
L’ENI
Mattei dimostrò quanto fosse facile per un manager di un’impresa pubblica liberarsi anche del tenue controllo a cui lo sottoponevano i politici. Come diceva lui stesso: «Uso i partiti politici come un taxi», nel senso che usava un partito per uno scopo, pagava la “corsa” e poi ne sceglieva un altro. Il denaro con cui poteva permettersi tutti questi passaggi derivava dalle rendite di cui l’ENI godeva grazie al monopolio sul metano e sul petrolio della pianura padana. Rendite con le quali aveva costruito enormi fondi neri.
Comprata l’acquiescenza dei politici, Mattei procedeva a modernizzare l’Italia rapidamente e con poca democrazia. Ci sono parecchi racconti di piccoli paesi che si svegliarono una mattina trovando i campi sventrati dagli operai ENI che avevano scavato i canali dove impiantare i metanodotti. All’epoca non c’era nemmeno il tempo di organizzare un comitato civico per fermare i lavori. Mattei collegò tutta l’Italia con i suoi gasdotti, distribuì quasi ovunque i benzinai AGIP e impiantò i primi grandi poli petrolchimici, come quello di Ravenna.
Sotto Mattei, l’ENI operò anche all’estero, dove entrò in competizione con le grandi multinazionali del petrolio anglo-americane che allora dominavano il mercato. Mattei strinse rapporti con il Marocco, la Libia, la Giordania e l’Algeria, che si stava rendendo indipendente dalla Francia. Oltre agli oleodotti e alle concessioni per l’esplorazione petrolifera, Mattei fece anche altro.
Si imbarcò in alcuni progetti che con l’attività dell’ENI non avevano niente a che fare. Come ad esempio un timido tentativo di organizzare un matrimonio tra lo Scià di Persia e Maria Gabriella di Savoia. Si inserì attivamente nella lotta d’indipendenza algerina, dichiarando che non avrebbe acquistato concessioni petrolifere nel paese se non avesse raggiunto l’indipendenza, ricevendo così una minaccia di morte da parte dell’OAS, un’organizzazione terroristica favorevole al dominio francese sull’Algeria. Sempre in quegli anni si fece convincere da alcuni politici, come il sindaco DC di Firenze Giorgio la Pira, ad operare alcuni salvataggi di imprese in difficoltà, entrando così nel settore chimico e in quello meccanico.
Uno di questi progetti fu anche la fondazione del quotidiano Il Giorno, creato con i soldi dell’ENI e per supportarne le battaglie politiche. Il Giorno era un’impresa che non c’entrava nulla con il core business dell’ENI, distolse energie e denaro dalla missione principale della società, ma fu anche uno dei giornali più moderni del paese e contribuì a cambiare il mondo della stampa italiana.
L’incidente
Nei primi anni ’60 i conti dell’ENI peggiorarono a causa dei salvataggi che la società aveva compiuto e di alcuni investimenti sbagliati. Nel 1962, ad esempio, l’indebitamento della società aumentò e non vennero prodotti utili, cioè guadagni. Il 27 ottobre del 1962 alle 16,57, Mattei decollò da Catania per tornare a Milano su un bimotore Morane Saulnier, della flotta dell’ENI. A bordo, oltre al pilota, c’era anche un giornalista americano.
Alle 18,57, mentre si trovavano sopra Bascapé, in fase di discesa verso l’aeroporto di Linate, dall’aereo arrivò l’ultima comunicazione: «Raggiunto duemila piedi», poi più nulla. La prima inchiesta ordinata dal ministro della difesa Giulio Andreotti imputò l’incidente a un errore del pilota: con una virata avrebbe perso il controllo dell’aereo facendolo precipitare.
La spiegazione non soddisfece il fratello di Mattei, che fece denuncia contro ignoti. Anche un’inchiesta della magistratura stabilì che l’aereo si era schiantato a terra quando ancora era integro, quindi non poteva essere esploso in volo. Allo stesso risultato è arrivata un’altra inchiesta, conclusa nel 1997.