lunedì 1 luglio 2013

ufficio affari riservati

D' Amato, lo " sbirro grand gourmet " che tirava le fila dell' esercito di infiltrati

Nella struttura dei servizi una piramide parallela i cui vertici sono ancora tutti da definire

----------------------------------------------------------------- IL RETROSCENA D'Amato, lo "sbirro grand - gourmet" che tirava le fila dell'esercito di infiltrati Nella struttura dei servizi una piramide parallela i cui vertici sono ancora tutti da definire ROMA - "Un piede dentro la legalita', tre fuori". Poi dava avidamente una tirata alla milionesima sigaretta della giornata e rideva: "Ma i bravi spioni non si fanno mai beccare". Per questo parlava di Henke, Miceli, Maletti e degli altri capi dei servizi segreti militari, finiti tutti nei guai, con lo stesso disprezzo che riservava agli chef che dimenticavano di mettere lo zafferano nella bouillabaisse. Un insulto, per uno come lui, figlio di un piemontese e di una napoletana ma nato a Marsiglia, la patria della celeberrima zuppa di pesce. Lui no, lo "sbirro grand gourmet" che abbinava la passione per lo spionaggio a quella per la gastronomia, non si fece mai beccare. Eppure Carlo Mastelloni e' sempre piu' convinto: era proprio Federico Umberto D'Amato il Grande Vecchio a conoscenza di tutti i misteri d'Italia. Fondatore, signore e padrone di una polizia segreta dentro il corpo stesso della polizia. Una specie di "Gladio" parallela, costituita non per sonnecchiare nella quotidianita', pronta a sollevarsi in armi nel caso di un golpe comunista ma operativa giorno dopo giorno, anno dopo anno, alla ricerca di ogni informazione utile alla causa anticomunista. Un fine per il quale tutti i mezzi, secondo il magistrato, erano buoni. Compreso l'arruolamento di personaggi coinvolti nelle faccende piu' torbide della strategia della tensione. Della lista di 250 nomi di informatori di D'Amato recuperata da Mastelloni in un armadio degli Interni non si sa quasi niente. Solo che sarebbe scritta a macchina (lo "sbirro goloso" odiava il computer) e avrebbe, ordinatamente riportata accanto ad ogni nome, la cifra versata a compenso. Dalle cinquanta alle centomila lire mensili, che all'epoca (anni Sessanta) erano una somma piu' che discreta. Tra cautele, indiscrezioni e smentite, pero', un nome e' saltato fuori. Un nome gia' noto, emerso anche nelle indagini sull'archivio del Viminale abbandonato in un capannone sull'Appia e scoperto nel novembre scorso da Aldo Giannuli, un perito barese che lavorava per conto del giudice Salvini: "Aristo". Cioe' Armando Mortilla, un giornalista oggi in pensione e piuttosto malconcio dopo un ictus, che lavorava ai programmi per l'estero della Rai. Una specie di Pecorelli, dice chi lo ha conosciuto, "ma piu' bravo: tanto e' vero che non ha fatto la fine di quello". Che fosse legato a Ordine Nuovo e ai francesi di "Ordre e tradition" di Guerin Serac si sapeva. Come si sapeva dell'ambiguita' dell'agenzia che aveva fondato, la "Notizie Latine", strettamente federata con la "Fiel", un'agenzia dei sindacati falangisti spagnoli che sarebbe servita di copertura a tutta una serie di episodi oscuri, e all'Aginterpresse, l'"ufficio" messo su a Lisbona da ex dell'Oas e utilizzato a lungo dalla Cia per le operazioni sporche. Quello che non si sapeva e' che avesse un rapporto cosi' stretto con l'Ufficio affari riservati diretto da D'Amato. E proprio questo sarebbe il nocciolo del nuovo filone dell'interminabile inchiesta condotta da Mastelloni sul sabotaggio ad Argo 16, l'aereo dei servizi che, pochi giorni dopo aver riportato a Tripoli un gruppetto di arabi presi a Fiumicino mentre progettavano un attentato a un aereo israeliano, si disintegro' sopra Marghera il 23 novembre 1973, probabilmente abbattuto per vendetta dal Mossad: "Aristo" era un informatore o piuttosto un infiltrato? E quanti infiltrati ci sono in quella lista di 250 nomi? D'Amato, che negli ultimi anni, prima di morire nell'agosto scorso, aveva preso a scherzare sulla sua vita da "spione" e a concedere rare interviste, sosteneva due cose. La prima: "Agli affari riservati c'erano solo poliziotti professionisti. Anzi, sbirri. Come me". La seconda: "Evitavamo fascisti e comunisti". Insomma, un ufficio "politicamente corretto", costretto a sporcarsi le mani il minimo indispensabile nel pantano degli informatori. Ma e' qui che entra in gioco, pare, la domanda che si pone il giudice veneziano. Una domanda che da decenni tormenta tutti quelli che si sono occupati delle stragi, della strategia della tensione e del terrorismo in Italia: quanti informatori erano nella realta' degli infiltrati? Mastelloni lo ripete con gli amici, ai convegni, nelle interviste, da anni: "Nel '74 era gia' possibile avere una sorta di organigramma non delle colonne delle Br ma di alcuni nominativi che poi sarebbero stati arrestati solo molti anni dopo. E lo stesso vale per il terrorismo di destra. La lotta al terrorismo fu eccessivamente lunga. E fini' oggettivamente per ritardare le analisi su alcuni fenomeni come le stragi". Il problema dello stragismo, per lui, starebbe tutto qui: i capi dei servizi consentirono agli infiltrati di agire? Questo sarebbe il nodo: capire come venivano gestiti gli informatori e gli infiltrati. Quali erano gli uni e quali gli altri. Perche' e' vero che oggi l'infiltrazione e' riconosciuta entro certi limiti dal codice di procedura penale. Ma restano gravi dubbi, non solo di dottrina, sull'"agente provocatore". Quello che, se puo' far comodo ai datori di lavoro, alza i livelli di scontro. In pratica: potremmo trovarci davanti alla sorpresa che una certa struttura di potere, dal dopoguerra in poi, sapeva tutto prima e lasciava fare. Chi era infiltrato nelle Brigate rosse, questa e' la teoria del giudice, poteva conoscere qualche volta non solo l'obiettivo ma l'ora e il luogo dove doveva accadere l'attentato. E lasciava fare. Dimenticando un articolo del codice penale che dice che "chiunque omette di impedire un evento puo' essere incriminato per aver cagionato l'evento stesso". Conclusione: evidentemente c'e' stato un malinteso senso della conservazione dello status quo. In nome del quale sarebbe stato pagato un prezzo. Spesso alto. E chi stava sopra a tutto? Lui, risponde Mastelloni, il Grande Vecchio. L'uomo che, firmandosi inizialmente con lo pseudonimo di Federico Godio, diede vita alla versione italiana della "Guida Gault & Millau" e che, secondo il giudice, sarebbe stato il punto di riferimento, anche dopo la chiusura degli "Affari Riservati", di tutti gli "spioni" in servizio agli Interni e soprattutto di quella specie di "polizia dentro la polizia" che aveva messo in piedi. Squadre con uomini propri, gerarchia propria e fondi propri, sparpagliate in giro per le questure e le prefetture di tutta Italia. Uomini fidatissimi che gli consentivano la gestione di un sistema di doppia informazione, quella palese e quella clandestina. A farla corta: una struttura piramidale parallela i cui vertici non sono ancora stati definiti. Tanto che il magistrato veneziano sarebbe convinto di una cosa: che oltre alle liste sterminate di "fonti" ricostruite anche grazie alla scoperta del deposito sull'Appia e a quella di 250 nomi scovata la scorsa settimana, Federico Umberto D'Amato conservasse gelosamente un altro archivio. Piu' piccolo ma piu' segreto di tutti. Ancora da trovare.


http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntate/il-gastronomo-del-viminale/1399/default.aspx